SU la testa – ovvero: “della rivoluzione digitale”

Ryan Siegel, con il suo “Are You Ready For Web 2.0?”(Wired 2015) non fu il primo né l’ultimo ‘strillone’ a mettere la propria voce al servizio di quel fenomeno che in molti chiamano ‘la rivoluzione digitale’. A dir la verità, anche se la cosa può apparire quanto meno curiosa, le tappe del fenomeno sono state perfettamente scandite da alcune significative apparizioni sulla copertina del più famoso e tradizionalmente cartaceo numero del Times: quello che ogni anno, puntuale come un orologio svizzero, ci regala una preziosa interpretazione dei tempi che corrono nominando “The Person Of The Year”.

Nel 1982 la nomination va al personal computer, nel 2010 a Mark Zuckerberg e nel 2011 a ‘The Protester’. Un’interpretazione preziosa, dicevo, tanto che va a segnalare proprio quelli che nel sentire comune sono i tre avvenimenti più significativi dell’avvento del digitale inteso come rivoluzione – con tanto di precipitare esponenziale degli eventi verso il finale del racconto –: l’ingresso di un computer in ogni casa, con l’invenzione della sua ‘portabilità’, la diffusione capillare del social networking e il suo utilizzo come mezzo di diffusione di idee capaci di unire e movimentare dentro e fuori i confini nazionali.

Tuttavia, credo che un’interpretazione di questo tipo dia luogo a tre misunderstanding semantici:

  1. l’avvento del digitale è una rivoluzione dell’umano in senso biologico: dall’invenzione del personal computer alla diffusione contemporanea dell’Internet of Thing – soprattutto se considerata dal punto di vista degli ‘wearables’ – il digitale può essere interpretato come una rivoluzione in senso biologico, ovvero come l’apparizione di un nuovo modo di intendere l’umano, contaminato dall’intelligenza artificiale, connesso attraverso applicativi tecnologici a un mondo virtuale generato dall’interazione di quegli stessi oggetti fra loro e dall’elaborazione dell’enorme quantità di dati che continuamente raccolgono;
  2. l’avvento del digitale è una rivoluzione generazionale: la diffusione dei social network, l’età e lo stile di vita dei loro ‘inventori’, nonché i linguaggi e le ‘maniere’ di comunicazione utilizzate su queste piattaforme hanno alimentato l’idea dell’improvvisa apparizione di un’intera generazione, i ‘digital natives’, pronti a prendere pieno possesso della nuova epoca, lasciando indietro i cosiddetti ‘digital immigrants’, con le loro difficoltà di adattamento, vecchie abitudini, dubbi e paure;
  3. l’avvento del digitale è una rivoluzione politica: l’utilizzo delle piattaforme di social networking a supporto di movimenti di protesta politico-sociale – prima su tutti la Primavera Araba e, in particolare, la rivoluzione egiziana (gennaio-febbraio 2011) – ha alimentato le supposizioni circa l’avvento di una nuova forma di democrazia, partecipata e trans-nazionale, resa possibile dalla presenza stessa delle nuove tecnologie; in questo senso, l’apporto rivoluzionario del digitale consisterebbe nel suo duplice ruolo di risorsa per un nuovo tipo di democrazia, ma anche di spazio democratico di per sé stesso.

L’interpretazione biologica, generazionale e politica del digitale condividono una cornice di senso in cui l’avvento del digitale costituisce una rivoluzione disruptive: un’innovazione così potente che può mettere a repentaglio statement consolidati nel brevissimo periodo. La sua rapidità e la portata del suo impatto sono il risultato di tecnologie ‘devastanti’ che entrano di continuo nel mercato con il vantaggio di incontrare consumatori pronti a sfruttarne al massimo le potenzialità e accoglierne i rapidi aggiornamenti. Dà da pensare, a questo proposito, che quando nel 2012 Apple ha rilasciato una nuova versione di software per i suoi dispositivi, gli utenti l’hanno scaricata più di dieci milioni di molte nelle prime quarantott’ore.

Ma è un’interpretazione che, presa da più vicino, non convince fino in fondo.

Innanzitutto, il tema dell’integrazione fra i dispositivi digitali e la loro elaborazione intelligente di un mondo virtuale di dati in grado di descrivere perfettamente l’utente – il suo stile di vita, le sue abitudini, persino il suo modo di pensare e le sue opinioni – è oggi largamente dibattuto.

La ribalta guadagnata dai Big Data e dalla conseguente analisi ‘automatica’ e ‘non supervisionata’ è già minacciata dalla più complessa questione su come ottenere dati che risultino davvero informativi: se i sistemi automatici basati sulla A.I. sembrano perfettamente in grado di misurare il ‘sentiment’ degli utenti – per esempio misurare quante volte viene utilizzato su Twitter il termine ‘Ipad’ –, questi non si dimostrano altrettanto efficaci quando si tratta di tracciare le ‘opinioni’ espresse.

Prendiamo un tweet come ‘I like iPad because it has large screen, but I won’t buy it as it is to expensive’. Dal punto di vista del sentiment, il tweet dev’essere conteggiato fra quanti esprimono un’inclinazione positiva nei confronti del tablet – l’oggetto è citato –, ma dal punto di vista dell’opinione è evidente la sua negatività: l’utente, di fatto, non acquisterà il prodotto di cui parla.

Un caso eclatante sono state le ultime elezioni americane: Obama poteva contare su 16,8 milioni di follower sui diversi social network, mentre Romney aveva un seguito di 0,6 milioni di persone. Eppure lo scarto di voti alle elezioni 2012 fu del solo 3,2% a favore del democratico. Ancora, dall’analisi del sentiment espresso online (soprattutto su Twitter), l’attuale Presidente avrebbe dovuto vincere con un sonoro + 15%, ben lontano dal vero risultato finale, quel 3,2% già citato.

Alla base di uno scarto così ampio sta il fatto che l’analisi dei dati, se effettuata in automatico e non supervisionata, classifica fino al 90% delle informazioni come neutrali, anche se in realtà non lo sono. Diversamente, la supervisione umana consente di effettuare lo switch dal sentiment all’opinione vera e propria, consentendo di individuare il significato dei dati.

Al contrario, nelle elezioni 2008 – che di fatto accesero l’occhio di bue sulla questione Big Data – Nate Silver di FiveThirtyEight pubblicò delle previsioni sulla percentuale di scarto fra i due candidati sostanzialmente allineate ai risultati finali. Questo perché non si era ancora estremizzato l’approccio ‘automatico’ all’analisi, in favore di una forte presenza della componente umana di cabina di regia.

L’integrazione fra i dispositivi digitali e la loro elaborazione intelligente di un mondo virtuale di dati, in grado di descrivere perfettamente l’utente, non è quindi l’inizio di una rivoluzione destinata alla supremazia dell’intelligenza artificiale, ma ribadisce l’importanza di un’integrazione forte fra tecnologia e innovazione people-driven.

Per quanto riguarda l’interpretazione generazionale delle rivoluzione digitale, che vede i ‘digital natives’ contrapporsi ai cosiddetti ‘digital immigrants’, recenti ricerche hanno evidenziato che l’utilizzo degli strumenti di comunicazione digitale e di social networking è alquanto diffuso anche nella generazione degli Over55, sebbene con sue caratteristiche peculiari.

In altre parole, ciò che più distingue nativi e immigranti digitali non è la frequenza o la capacità di utilizzo degli strumenti, quanto la modalità con cui a quegli stessi strumenti viene effettuato l’accesso: l’avvento della tecnologia mobile ha infatti condotto la generazione Over55 a un leap frog per cui molti di loro pur non utilizzando o avendo in casa un personal computer, accedono ai social network e alla rete in generale da smartphone o tablet.

Si tratta, d’altra parte, della generazione che ha iniziato a utilizzare i primi telefoni cellulari immessi sul mercato e le prime agende elettroniche; a suo agio, quindi, con questa tipologia di device e la loro evoluzione, più che con il personal computer – spesso usato soltanto sul luogo di lavoro.

Nessuna contrapposizione quindi, ma un differente approccio, caratterizzato più dall’incontro fra sviluppo di una particolare tecnologia e ‘habitus’ storico-culturale che va a caratterizzare in maniera specifica purpose e diffusione di comportamenti in due generazioni diverse.

Riguardo all’interpretazione politica dell’avvento del digitale, non mi soffermo qui sull’ampio dibattito ancora in corso sulla relazione fra nuovi strumenti di comunicazione di massa e democrazia; un dibattito che, in ogni caso, più che sulla dimensione comunitaria delle relazioni intrecciate tramite il web 2.0 si concentra invece sulla contrapposizione fra lettura positiva vs. critica di quella che viene definita come una comunicazione massiva di sé o individualismo connesso.

L’idea, in generale, del digitale come risorsa per un nuovo tipo di democrazia – o spazio democratico di per sé stesso – è già a livello di studi accademico-teorici considerata abbastanza debole, in favore di una più forte caratterizzazione dell’epoca che stiamo vivendo come di un’era post-democratica in cui l’individuo e non la collettività ha guadagnato visibilità e importanza.

Tornando poi sul tema della Primavera Araba e sull’utilizzo delle piattaforme di social networking a supporto, i dati concreti raccolti dal Cairo Institute for Human Rights Studies rivelano che questi furono utilizzati attivamente soltanto da una minoranza dei partecipanti alla protesta egiziana – una percentuale infinitesimale della popolazione nazionale. In altre parole, «digital media was not dominant in Egyptian protest activity».

Anche l’analisi dei dati relativi all’utilizzo dei social media oltre i confini nazionali indicano la forte presenza di un piccolo gruppo di power user che esprimevano opinioni e riportavano un’interpretazione dei fatti e una larga audience di utenti passivi – che condividevano e rilanciavano i contenuti prodotti da pochi altri –.

Più che la costruzione conversazionale e online di un movimento di protesta, la cui partecipazione e consapevolezza andava emergendo dal basso grazie agli strumenti online, si trattò quindi della diffusione nazionale e trans-nazionale di empatia e supporto a idee e descrizioni di avvenimenti frutto della capacità comunicativa di alcuni – con una logica, a ben vedere, molto più top-down di quello che altre letture, più entusiaste, vorrebbero ammettere.

Riassumendo: l’interpretazione biologica, generazionale e politica che vede l’avvento del digitale come una rivoluzione disruptive non convince e, soprattutto, non sopravvive a uno sguardo più attento.

Eppure, basta aggiungere un elemento agli highlight che la lettura del Times ha posto sulla timeline della diffusione del digitale per accedere a una nuova e più convincente prospettiva: se nel 1982 la nomination di ‘Person Of The Year’ va al personal computer, e nel 2010 a Mark Zuckerberg, nel 2006 la rivista ci indica un personaggio che ciascuno di noi conosce piuttosto bene:

YOU

Fatta una sostituzione e tenendo conto dell’ordine temporale con cui gli highlight vengono portati a evidenza, ci troviamo di fronte a un’interpretazione dell’avvento del digitale che può essere così riassunta:

  1. la tecnologia al centro – Personal Computer
  2. l’utente al centro – You
  3. le relazioni al centro – Mark Zuckerberg, cioè Facebook

Il tempo che scorre dal punto 1 al punto 3 assiste al cambio di protagonista al centro della scena.

Anche con questa lettura ci troviamo di fronte a una rivoluzione, ma intesa in senso copernicano: gli elementi in gioco non vi si intromettono in maniera ‘devastante’, non agiscono sugli statement consolidati mettendoli a repentaglio, ma spostandone il punto di fuga dando luogo a prospettive differenti.

A differenza di quanto descriveva l’interpretazione disruptive, la rivoluzione ha qui l’aspetto di una trasformazione. Trasformazione in cui l’environment digitale in cui siamo ormai immersi cambia forma – appunto – ruotando la posizione dei suoi fattori sostanziali ma tenendoli sempre in gioco come elementi eterogenei di un tutto organico, una rete che il tempo rivela come fortemente caratterizzata dall’intreccio delle relazioni al suo interno. Un dispositivo, insomma.

Questa interpretazione della rivoluzione digitale come trasformazione è d’altra parte perfettamente in linea con quanto accaduto a seguito dello scoppio della ‘Bolla Dot Com’ del 2001, quando molte delle organizzazioni incumbent nel mercato del World Wide Web assistettero quasi inermi al proprio crollo in borsa.

Soltanto alcune di esse seppero risalire la china senza scomparire. Amazon su tutte, che vide precipitare le proprie azioni da 107 a 7 dollari nel 2001 per poi raggiungere, nei dieci anni successivi allo scoppio della bolla, quota 200. Il guru per eccellenza del web 2.0, Tim O’Reilly, si accorse subito che la sopravvivenza di alcune aziende e la scomparsa di altre era da attribuire alla capacità delle prime di comprendere che c’era una trasformazione in atto, che il web stava passando dalla versione 1.0 alla successiva:

Il principio centrale che sta dietro il successo dei giganti nati nell’era del Web 1.0 che sono sopravvissuti per guidare l’era del Web 2.0 sembra essere questo: l’hyperlinking (la relazione in linguaggio informatico) è il fondamento del web. Quando gli utenti aggiungono nuovi concetti e nuovi siti, questi vengono integrati alla struttura del web dagli altri utenti che ne scoprono il contenuto e creano link. Così come le sinapsi si formano nel cervello, con le associazioni che diventano più forti attraverso la ripetizione o l’intensità, le connessioni nel web crescono organicamente come risultato dell’attività collettiva di tutti gli utenti del web.

Transformers spin off: il 44esimo Convegno AIDP

A pochi giorni dalla conclusione del 44esimo Congresso AIDP, vorrei coinvolgervi in quanto accaduto nel corso di due giorni intensi di speech, testimonianze e incontri.

In realtà, sarebbe più corretto dire “quanto è già accaduto”, dato il tema del Congresso – “Lavori in cerca di imprese – che ha fin dai primi speech richiamato le aziende sul fatto che il tanto chiacchierato futuro fosse già arrivato.

Non una semplice constatazione, ma piuttosto una call to action precisa: fare invece di raccontare.

Per quanto diversi fra loro, i relatori alternatisi sul palco hanno tutti contribuito a focalizzare il tema lanciato da AIDP, in un appello corale che ha coinvolto l’attenta selezione di sponsor e partner presenti: la digital transformation ha da tempo dismesso i panni dell’ospite atteso per chissà quando e bussa con insistenza alle porte delle organizzazioni.

La strada che ha percorso l’ha tracciata la tecnologia, ma sono state le persone a portarla fin dove è arrivata oggi.

E così – dall’invenzione tecnologica trasformata in innovazione sostenibile, al superamento dei confini generazionali verso una digitalizzazione diffusa delle popolazioni aziendali, passando per il tema centrale della ricerca dei talenti in un contesto dove distinguere il segnale vero e proprio nel rumore costantemente provocato dai big data – la domanda chiave dei due giorni congressuali è stata: “Voi, cosa state facendo?”.

Oggi che il dispositivo digitale è ormai al centro della vita di ogni individuo, e che questo dispositivo è, in senso foucaultiano, non un mero oggetto, bensì “un mix di tecnologia, normativa, testi, azioni, scelte, abitudini e persino differenti approcci di diverse generazioni”, le aziende se lo ritrovano in casa: a livello di cultura socio-individuale del proprio asset fondamentale – le persone – anche se non ancora, in molti casi, a livello di cultura organizzativa.

Per restare in tema di livelli: quel che è emerso dal palco della Grand Guardia di Verona è stato un dislivello che tutte le organizzazioni si trovano a dover fronteggiare. E non solo a colpi di integrazione tecnologica dei propri processi, ma disponendosi anch’esse in termini di “tecnologia, normativa, testi, azioni, scelte, abitudini e differenti approcci di diverse generazioni”.

Un mix complesso che ha il suo punto di ancoraggio nella necessità di trovare un terreno comune tra l’organizzazione e le persone che ne fanno parte.

Particolarmente illuminante è stata, in questo senso, la proposta di Luca Solari che – con una sagace metafora – ha fatto del linguaggio il focus della questione: Talk nerdy to me, il titolo del suo speech, ha immediatamente messo in luce l’opportunità imperdibile che le aziende hanno di rifondarsi culturalmente proprio a partire da “quel linguaggio” che è oggi la condizione di possibilità necessaria perché le persone possano creare, relazionandosi in maniera efficace, del valore per sé e per i network di cui fanno parte.

Un linguaggio che, come tutti i sistemi che si rispettino, ha tre assiomi imprescindibili: autonomia, libertà e condivisione.

E se dal punto di vista puramente linguistico passiamo a quello socio-logico, allora questi tre assiomi si trasformano sotto i nostri occhi in tre valori. Tre punti cardinali in grado di orientare la rotta verso una ulteriore trasformazione: quella dei processi aziendali.

Non aggiungo altro e gli lascio la parola

Transformers 1 – Le organizzazioni trasformabili

Nell’ultimo articolo, prendendola un po’ alla larga, devo ammetterlo, riflettevo sul fatto che – a partire dai dati emersi dallo stato del social media marketing nel 2014 – la favola bella del social media marketing stesso aveva cambiato incipit: da “C’erano una volta i social network” a “C’erano una volta le community”.

Questo slittamento apre infinite possibilità, prima fra tutte la magnifica opportunità di parlare di social enterprise, dove per social non si fa, non più, riferimento alle piattaforme che hanno tenuto a battesimo il ritorno alla ribalta del termine, ma anche e soprattuto a comportamenti, modelli di relazioni e pratiche di cooperazione – pratiche collaborative.

Liberate dalla piattaforma tecnologica che le ha viste nascere, queste pratiche possono essere esportate dal modo in cui un’organizzazione si relaziona con i suoi stakeholder esterni e importate al suo interno per trasformarla in chiave digitale.

Ma la digital transformation delle organizzazioni è davvero possibile? O non è forse una fatica di Sisifo a cui ci accingiamo accecati da una moda passeggera ma destinati a sottometterci ai cicli e ricicli della storia e assistere alla restaurazione dello status quo?

Alla scoperta della trasformabilità intrinseca delle organizzazioni

Stiamo provando a cambiare ogni cosa perché tutto resti com’era? E poi, ne abbiamo il diritto?

Pensiamo a un’organizzazione, una grande azienda, con una storia secolare – e che magari un pezzettino di storia l’ha pure fatta –. Osserviamo i suoi processi, meccanismi complessi, disegnati sapientemente nel corso del tempo, raccogliendo tutte le grandi esperienze e teorie del management e degli studi sociali. Un gigante che sembra avere tutte le ragioni per sostenere con tutta la sua autorevolezza che meglio di così non potrebbe essere… Non vorremmo mica, noi, post moderni don Quixote, partire lancia in resta con il rischio di incastrarla in uno di quei perfetti e oliati meccanismi provocando più danni che altro?

Di fronte a quelle organizzazioni ci si può sentire come al Museo del Prado di Madrid davanti a questo:

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Niente di meno che Las Meninas, dipinto olio su tela nel 1656 da Diego Velazquez.
Di questo dipinto hanno detto, tanto per citare qualche esempio: “la teologia della pittura” (Luca Giordano), “La filosofia stessa dell’arte” (Thomas Lawrence), “l’introduzione di una nuova scienza nell’arte europea” (Michel Foucault).

Di un’opera del genere viene da pensare che l’ultima pennellata del suo autore abbia segnato il punto definitivo della sua trasformabilità: niente potrebbe renderla migliore o, meglio, nessuna sua diversa interpretazione avrebbe la possibilità di aggiungervi più valore di quanto non sia già esperibile.

Eppure, se ci spostiamo di 3 secoli e qualche centinaio di chilometri, nelle sale del Museo Picasso di Barcellona troviamo questa serie di dipinti:

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Sì perché nel 1957, il pittore di Malaga, innamorato del quadro di Velasquez, ha dimostrato che in esso c’era ancora un’apertura di trasformabilità. Ma non solo.

Ha anche messo in rilievo che questa trasformabilità era possibile attraverso una metodologia ben definita: concentrarsi sugli elementi salienti dell’opera e svilupparne singolarmente la trasformazione, attraverso un’interpretazione che ne mette in rilievo nuove prospettive, nuove visuali, che accentua alcuni colori e ne fa risaltare luci e ombre… insomma: aggiunge valore a ciascuno. Nella peggiore delle ipotesi dà nuova vita al quadro e nuova notorietà al suo autore.

La metodologia di trasformazione di Las Meninas non si ferma però ai suo elementi salienti:

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Ed ecco la seconda lezione di Picasso sulla “trasformazione”: bisogna sapersi assicurare di poter ricostruire il quadro d’insieme in modo che ciascuno di essi vi riposi in un insieme armonico, un ambiente complessivamente adatto ad accoglierli facendone emergere il valore aggiunto della trasformazione.

Ma, e questa è la terza lezione, la ricostruzione può avvenire in diversi modi diversi o, meglio, la trasformazione dell’opera può essere espressa mediante diversi indici di trasformabilita che, in questo caso specifico, segnano il percorso verso un progressivo abbandono del figurativo in favore di un cubismo sempre più accentuato.

Fuor di metafora, e tornando alle organizzazioni, le lezioni apprese da Picasso possono essere così riassunte:

  1. tutte le organizzazioni hanno in sé un certo grado di trasformabilità;
  2. il processo di trasformazione deve avvenire in maniera prima di tutto analitica, individuando alcuni elementi / processi chiave da cui partire;
  3. dagli elementi si deve sempre però ricostruire un quadro d’insieme (sintesi) che sia innanzitutto coerente e la cui efficacia sia garantita dall’applicazione del giusto indice di trasformabilità che meglio si adatta alla cultura organizzativa in cui ci si muove.

Seguendo questa strada immersiva all’interno delle organizzazioni, la loro digital transformation sembra più possibile di quanto non potesse apparire osservandole dall’esterno. Un’immersione che ci consente di riemergere da un processo di change senza interferire drasticamente con i loro modelli operazionali ma dandone nuova prospettiva e nuovo valore alla luce di un contesto che, lo si voglia o meno, è già cambiato e continua a cambiare.

Essere social oltre il social…

Ovvero: il dilemma del “Social Media Marketing 2014” (e non solo)

1. Più di qualche parola sulla lettura dei report dedicati ai social media

Ci sono modi diversi di leggere lo stesso report. E, in effetti, ci sono tipi diversi di report.
Voglio dire: in genere, se vuoi conoscere il presente di un determinato fenomeno, vai a caccia dei classici “The State of…”, mentre se sei interessato al futuro dello stesso, allora viri su “The future of”.

Ecco: questa categorizzazione non mi è mai piaciuta.
Innanzitutto perché, quando si tratta di fenomeni cangianti e dinamici come quelli legati ai social media, leggere un report o una ricerca che pretendano di fotografarne il presente in maniera univoca e valida per più di 24 ore mi sembra una contraddizione.
Non si tratta, attenzione, di una critica a chi a questa o a quella ricerca si dedica – spesso tirando fuori insight che, diciamolo, ci permettono di orientarci un minimo in questo grosso grasso world wild web –, ma piuttosto un warning al modo in cui la leggiamo: dobbiamo essere consapevoli del fatto che, nel momento stesso in cui li rintracciamo in rete (giusto il tempo di esultare), i dati sul presente di un particolare utilizzo dei social media sono già passati. O, meglio, sarebbero da aggiornare ogni minuto, anzi ogni secondo: il “t con zero” in cui il ricercatore ha posto le domande, così come il “t con 1” in cui ha raccolto e esaminato le risposte e il “t con 2” in cui raccogliamo il frutto del suo lavoro non sono istanti determinati, ma periodi divisibili all’infinito, in cui ogni frammento porta con sé uno o più cambiamenti…
È il crudele, fluido, mondo digitale.

Prendiamo adesso i mitici (e la parola non è scelta a caso) “The future of”: se  è difficile credere che i dati raccontati in un report che tenta di descrivere il presente di un fenomeno legato ai social media, possiamo sperare di affidarci a una ricerca che intende tracciarne i percorsi futuri?
Ci sono due modi principali di condurre il tentativo:

  1. si possono prendere i dati emersi da un “The state of” e fare una proiezione statistica su x mesi successivi – ma qui si ricade nel problema di consapevolezza già sviscerato sopra;
  2. si possono costruire nuovi insight, conducendo interviste e survey mirate, chiedendo agli intervistati di concentrarsi su quanto pensano di sviluppare in futuro.

La seconda è decisamente l’alternativa che preferisco.
Però – perché lo sapevate che ci sarebbe stato un però – sui dati che ne emergono ho qualche dubbio: le persone intervistate vivono nel – e del – continuo cambiamento dei social media e del modo con cui le persone si rapportano a essi. Anzi: loro stessi fanno parte di queste fantomatiche persone, loro stessi cambiano il proprio modo di pensare, relazionarsi al, insomma interpretare, il mezzo. Pertanto, i trend che individuano e indicano sono intuizioni del momento cui non è affatto garantita continuità lineare nel tempo.
L’apparizione di una nuova tecnologia, o di una nuova piattaforma collaborativa (magari con logiche relazionali e di fruibilità differenti rispetto alle precedenti) agiscono sui cosiddetti trend come quantità di energia che improvvisamente influiscono sul loro movimento. Ignorare questo influsso, riducendo il tutto a un moto armonico (irrispettoso della quantità di energia che gli viene dall’esterno) è impossibile per chi vuole lavorare in piena consapevolezza con i social media.
Riassumendo: aspettarsi sempre l’inaspettato – è il crudele, disarmonico, mondo digitale.

Detto tutto questo, io adoro i report dedicati ai social media!
Perché quando mappiamo un fenomeno ciò che facciamo realmente è gettargli addosso una rete e sistemargliela attorno per far coincidere i suoi nodi con i punti focali di quanto va a racchiudere.

Le reti sono fantastiche: hanno tutte almeno una maglia rotta (o che si rompe durante la pesca). E da quella fessura passano sempre le cose più interessanti, quelle che sfuggono alla classificazione perché non le appartengono… fanno già parte di una altra storia.
Se non avessimo gettato la rete, non avremmo notato questo differenziarsi, non ci sarebbe saltato all’occhio.

Ma è proprio di quello che dobbiamo invece andare a caccia (e scusate il brusco passaggio di metafora) quando leggiamo un report sui social media: lì sta la vera scoperta dei ricercatori… basta cercare.

2. Qualche parola su “The 2014 State of Enterprise Social Marketing Report”

Ora, prendiamo l’ultimo report sullo stato del social media marketing nel 2014, commissionato da Spredfast a Forrester.

La survey è stata condotta nel primo quadrimestre dell’anno ormai agli sgoccioli e ha coinvolto 160 partecipanti, tutti top manager dell’area/funzione social e/o digital di aziende il cui fatturato supera il miliardo di dollari. La provenienza geografica dei partecipanti è circoscritta all’America del Nord e all’Europa Occidentale.

I dati proposti sono in linea con quanto emerso finora sulla crescita dell’investimento sul SMM da parte delle grandi organizzazioni; forse un po’ ottimisti per il panorama italiano, ma di certo confortanti per chi lavora nell’ambito:

  • il 98% delle aziende usa già almeno uno dei principali social network a fini di marketing (ottimo per i social media manager!), e il 58% pensa di aggiungerne almeno un altro alla propria strategia (ancora meglio!);
  • il 70% dei top manager crede fortemente nel valore del SMM (idem come sopra!);
  • il 73% delle aziende misura il business value del SMM attraverso la crescita dell’audience (bene: forse i social media manager riusciranno a liberarsi delle pressanti richieste su ROI impossibili da ottenere) e il loro primo obiettivo è aumentare la brand awareness – 39% delle aziende;
  • il 68% delle aziende sta pensando di incrementare il proprio investimento nel SMM, anche ingrandendo lo staff dedicato del 10% (niente più: “ma questo lo sa fare anche mio cugino??!?).

Tutte ottime notizie, dicevamo…
Ma, in fondo, del fatto che le organizzazioni in generale stessero investendo sul social media marketing ci eravamo accorti un po’ tutti, pensare che non lo facessero – e con questi dati – aziende con fatturati superiori al milione di dollari sarebbe stato quantomeno inappropriato.

Insomma, che si stesse andando da quella parte era ovvio. Cosa c’è allora di veramente utile nel report? Forse i dati nudi e crudi? Non credo: quelli stanno già cambiando, le percentuali si sono sicuramente già evolute, i “stanno pensando di”  si sono forse già realizzati e sono stati sostituiti da altri obiettivi.

Allora cosa?

3. Una riflessione sull’emergente

Sì perché c’è qualcosa che mi ha particolarmente colpito nel report redatto da Forrester:

  1. nel “Summary of Findings” viene riportato che il 67% dei partecipanti ha dichiarato che all’interno delle loro organizzazioni il SMM viene integrato con altri sforzi, sempre legati al marketing, ma di più ampio respiro;
  2. nell'”Executive Report” – proprio a pagina 1! – leggiamo invece che il 25% di queste organizzazioni sta pianificando di mettere in atto strategie non legate ai social netowork.

I punti 1 e 2 sembrano dire la stessa cosa, ma la decrescita dei dati statistici riportati racconta la stessa storia narrata in una celebre espressione “maggiore è l’estensione di un concetto, minore è la sua intensione” (G. Frege): il punto 2, con il suo 25% di aziende rispondenti, descrive una verticalizzazione rispetto “agli sforzi di più ampio respiro” del punto 1, una loro maggiore specificazione lungo una specifica linea tematica.

In entrambi gli insight si va oltre il social, ma in due modi diversi.
Nel primo caso oltre il social ci sono tutte le altre possibili strategie di marketing (anche quelle – perché no? – che non sono classificabili nemmeno come digitali).
Nel secondo, con oltre il social si intende specificamente oltre i social network (Facebook, Twitter, ecc.), ma non oltre le modalità collaborative e conversazionali che stanno alla base della cultura che quelle piattaforme hanno supportato.

E, infatti:

tactics outside of social networks include curating social content on own website, branded blog, brand community or forums and/or accepting ratings and reviews on own sites.

Eccola qui l’emergenza che stavamo cercando, la vera scoperta dei ricercatori che, appunto, inseriscono una percentuale così bassa rispetto alle altre proprio nella prima pagina di un executive report. C’è una spinta ad adottare le modalità relazionali tipiche dei social network astraendole dal legame tutto tecnologico delle piattaforme più diffuse a livello consumer.

Questa spinta, come promesso, non può essere assorbita del tutto da una descrizione de lo stato dell’enterprise social media marketing nel 2014, perché racconta tutta un’altra storia rispetto al SMM tradizionale.

Non è fortemente caratterizzata dal legame contenuto-relazione-piattaforma tecnologica (per cui certi contenuti possono essere postati su Facebook ma non su Twitter così come certe relazioni sono rese possibili qui ma non lì, ecc.), ma si focalizza primariamente sull’abilitazione di un certo di tipo di pratiche (collaborazione e conversazione) che hanno a che fare più con la cultura sviluppata che con la tecnologia.

In questo senso, il tema della community – inteso come ambiente abilitante di relazioni – prevale su quello del social network: i blog, i forum, le brand community e le aree parte allo scambio dei siti non sono social network in senso proprio, ma community.

Ecco allora che, anche se non potremo mai immaginare come andrà a finire, ora sappiamo questo della favola del social media marketing: iniziata con un C’era una volta Facebook, ha cambiato incipit…

C’erano una volta le community…

Ed ecco perché per me vale la pena leggere i report!

 

Editoria e Social Media: That’s Amore

È uscita oggi l’anteprima del Report n.3 della seconda edizione dell’Osservatorio Brands e Social Media, nato da una “join venture” tra Osscom (Centro di ricerca sui media e la comunicazione dell’Università Cattolica)  e DigitalPr.
La ricerca analizza la comunicazione sui social media di alcuni dei più rilevanti brand nazionali, divisi per settore merceologico.

Il report n.3 è dedicato all’editoria.

Le case editrici italiane prese in considerazione sono state scelte in base alle classifiche dei bestseller 2012 di “La Lettura” (“Corriere della sera”), “Tuttolibri” (“La Stampa”) e Amazon. I dati sono attualissimi: giugno 2013.

Iniziamo con la classifica dei più seguiti: su Facebook e Twitter, Mondadori non ha rivali, mentre per quanto riguarda YouTube, è Feltrinelli ad avere la meglio:

i più seguiti

I ragazzi di Osscom e DigitalPr, però, non si sono limitati a prendere in considerazione il numero dei fan/follower (della serie: allora erano capaci tutti), ma hanno incrociato 60 indicatori complessivi comprendenti variabili di esposizione, coerenza, interazione, piattaforma, contenuto, engagement…

E, infatti, nella Top3 dei best performer entra Newton Compton, che non compare fra i più seguiti su nessuna delle piattaforme:

top3performer

La classifica delle piattaforme più utilizzate può sembrare scontata, ma propone – oltre ai più che prevedibili primi posti per Facebook e Twitter – un sorprendente terzo posto per YouTube, che batte Pinterest. Un dato interessante, credo, perché la produzione di contenuti video è più complessa (e costosa) di quella delle immagini – considerando, poi, che gli editori hanno sottomano una quantità infinita di immagini già pronte per essere pinnate: le copertine! –. Insomma: gli editori non fanno solo presenza sui social media, ma investono nella produzione di contenuti ad hoc!

Per quanto riguarda i trend, da evidenziare (oltre alla forte presenza su YouTube), emergono:

  • la tendenza a differenziare la propria presenza online interpretando il sito in chiave informativa, Facebook in chiave promozionale e Twitter in chiave conversazionale
  • un forte allineamento sui contenuti da condividere, con un’alta presenza di citazioni tratte dai libri in catalogo che risultano essere, sia su Facebook che su Twitter, i contenuti con più alto livello di engagement.

Se volete scarica l’infografica completa, la trovate qui. Buona lettura!

Instagram (cioè Facebook) sfida Vine (cioè Twitter)

Ieri a Menlo Park (California) Mark Zuckerberg e Kevin Systrom hanno presentato la nuova funzione video per Instagram.
Nuova funzione che è già disponibile per i possessori di Iphone o smartphone con sistema Android (basta aggiornare l’applicazione), con le stesse possibilità di sharing attive per le immagini.
La durata massima di un video è di 15 secondi… Come a dire: un tweet può durare molto più di 6 secondi. E chi ha orecchie per intendere intenda.

Come funziona? Guardate qui:

http://vimeo.com/68765934

 

Tutti pazzi per Vine

In pochi mesi dal suo lancio, Vine ha già rivoluzionato il modo di pensare i contenuti video in rete.
Credo che gran parte del successo sia dovuto alla sua estrema facilità di utilizzo. Anzi: al rapporto fra questa facilità di utilizzo e la qualità del risultato percepito da chi la utilizza. Chiunque, anche chi ha scarse se non nulle competenze nell’ambito della produzione video, può facilmente realizzare un video con effetto time lapse…

Un altro smacco per chi credeva che “nel mondo non c’è abbastanza talento per il web 2.0” (Barry Diller – per saperne di più leggete questo). Ce n’è talmente poco che Vine ha permesso a giovano talenti del web (2.0 ovviamente) di partecipare al Tribeca Film Festival.
Talmente poco che Charlie Love, con Vine, ha realizzato questo:

E Pinot questo:

Molti altri esempi di bellissime realizzazioni li trovate qui.

Insomma, tutti pazzi per Vine. E, quindi, tutti pazzi per i contenuti video che hanno quella specifica forma di narrazione e, soprattutto, durano 6 secondi.

Un problema per il social media marketing?
O meglio, al di là delle espressioni artistiche, Vine può essere utilizzato per veicolare messaggi “commerciali”, può essere integrato nelle strategie di utilizzo dei social media per la promozione di un brand o di un prodotto. Forma e tempi sono adatti ai contenuti?

La risposta è quasi ovvia: non gli stessi identici contenuti. Bisogna ripensarli, adattarli, far sì che esprimano il loro valore senza sembrare fuori luogo in quello che è, ne sono convinta, un nuovo modo di comunicare tramite le immagini.

Un esempio concreto (e magnifico!) è l’utilizzo di Vine da parte della casa editrice Minimum Fax.
Sì perché l’impresa più ardua di tutte (credevo, prima di imbattermi nelle loro realizzazioni) è quella di raccontare un libro su Vine (e in 6 secondi, insomma: neanche il tempo di leggere la prima riga della quarta di copertina!). Ardua, ma non impossibile, se si è bravi ad adattare il proprio contenuto al mezzo con cui lo si comunica:

Per i più scettici (e anche per chi cerca ispirazione), ecco invece un esempio di un vero e proprio spot di 6 secondi, realizzato da Toyota España:

Se siete interessati ad altri “case studies”, HubSpot ne ha raccolti 15 (i the best of).

Se non avete un Iphone, un Ipad, o uno smartphone con sistema operativo Android (sì perché adesso Vine è disponibile anche per Android), potete guardare online i video postati dagli utenti grazie a SeeVine, un “browser” non ufficiale con lo streaming delle ultime realizzazioni postate tramite Vine. Vi permette anche di fare ricerche per hashtag o di cercare direttamente gli utenti Vine (in questo secondo caso, vi raggruppa tutti i loro post in una grafica molto simile a quella di Pinterest). Consente anche di ottenere embedded link per rilanciare i contenuti sui vostri siti o blog.

Wikipedia: stato dell’arte

Ogni tanto (anzi: spesso), in rete si trovano delle “chicche” che ci eravamo persi.
Di solito succede perché siamo sommersi da un flusso continuo di informazioni in cui è difficile orientarsi al meglio – e questa è la ragione per cui ci perdiamo qualcosa – e  qualche altro utente, a un certo punto, senza ragioni apparenti, scova all’interno di quel flusso continuo una piccola perla – e questa è, invece, la ragione per cui improvvisamente ci imbattiamo in una “chicca”.

E così, da questa “maglia rotta nelle rete”, i contenuti più belli spiccano il volo e guadagnano una seconda vita. La ripartenza è accompagnata da parole canoniche, alcune tra le tante espressioni che sono entrate a far parte del codice di linguaggio con cui i naviganti si scambiano messaggi: “Per chi se lo fosse perso”. Sei parole, appunto, che contengono un messaggio in codice: attenzione, questo è un contenuto che vale pena far girare, ancora. E poi, di nuovo, ancora e ancora.

È in questo modo che ho scovato questo video di JESS3 su Vimeo. Che, in occasione del decimo anniversario di Wikipedia, ne racconta lo “stato dell’arte”.

E allora, se ve lo foste perso:

Una parola al giorno…

Ottimizzazione, sinergia, collaborazione, coinvolgimento… Ecco le parole che fanno il digital marketing!

Ma lo fanno davvero?

Finalmente qualcuno ha avuto il fegato di rispondere (e con autorità trattandosi di Mashable): non basta semplicemente usarle, magari piazzandole a profusione nei vostri discorsi o presentazioni… Bisogna saperle usare strategicamente, al posto giusto, al momento giusto.

E, soprattutto, farlo quando siamo sicuri che abbiano sotto una sostanza (leggasi: BIG DATA a supporto).

Sembra facile (e forse nella maggior parte dei casi siamo sicuri che lo stiamo già facendo), ma non lo è.

Nello sconfinato mondo delle cosiddette buzzword serve un po’ d’ordine, fosse anche solo perché senza un linguaggio condiviso diventa davvero difficile condividere contenuti di valore.

E così, i signori di Mashable si sono rimboccati le maniche, e hanno condotto i loro lettori attraverso un vero e proprio buzzword lexicon, partendo proprio dai termini legati al digital marketing attorno ai quali la confusione raggiungeva dimensioni da Torre di Babele.

Oggi ne hanno tirato le fila, con una bellissima infografica, che vi ripropongo. Scaricatela, stampatela, discutetene con i colleghi. Perché una parola al giorno toglie il medico di torno.

E allora, alla salute di tutti i community manager!

 

Buzzwords Infogrpahic

Digital marketing trends per il 2013

Non c’è tregua nel mondo del digital market. Appena ti addormenti un attimo, con le tue ultime convinzioni (maturate appena il giorno prima e aggiornate alle 23.59 esatte), ecco che tutto cambia di nuovo.

E va bene, non proprio tutto tutto, ma state pur certi che una breaking news è pronta a darvi il buongiorno, magari “cinguettando”.

Adesso Yahoo ha acquistato Tumblr, e qualcosa cambierà di nuovo, statene certi. Gli appassionati sono pessimisti (e ne approfitto per segnalarvi le 20 reazioni più divertenti)… Altri la prendono con filosofia: chi vivrà, vedrà.

Nel frattempo, Dot Com Infoway prova ad anticipare i 4 trend che stanno guidando e guideranno il digital marketing del 2013… Fino al prossimo cinguettio…

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